[I]nterventi
Gli strumenti della rigenerazione urbana: evoluzione delle forme
Autore: Lorenzo Spallino
Data: 21.06.2013
Testo dell'intervento tenuto al Convegno "RIGENERAZIONE URBANA IN LOMBARDIA. Dal progetto all'attuazione" Organizzato dall'Ordine degli Architetti di Como con la Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti PPC, INU Lombardia, Comune di Como [link].
Una sintesi di questo intervento è stata pubblicata su AL Rivista degli architetti lombardi, n. 494 [link]
Utilizzo: questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione 2.5 Italia
Tesi
La tesi di questo intervento è quella secondo cui il futuro della legislazione urbanistica è caratterizzata da due elementi. Il primo è il superamento delle criticità poste dalla legislazione eccezionale, attraverso la definitiva messa a regime dell'istituto delle varianti all'interno del sistema di pianificazione ordinaria. Il secondo - e questo è l'elemento più futuribile - è il possibile affrancamento delle forme di pianificazione comunale da quelle regionali, i cui sviluppi sono obbiettivamente difficili da prevedere.
1.
Per comprendere il senso dell'evoluzione della legislazione urbanistica,
dobbiamo cercare di allontanarci idealmente da essa e cercare di osservarla come
farebbe un estraneo alla materia, ricorrendo al detto popolare "Occhi da
straniero, occhi da sparviero". Solo così possiamo distinguere e correttamente
collocare i singoli episodi rispetto al contesto, a sua volta in movimento,
evitando l'errore di ricavare dal particolare le regole del generale.
Tra le così dette scienze sociali, quella urbanistica è recentissima,
riconoscendone un triplice embrione nel primo provvedimento normativo dello
Stato italiano unitario, ossia la legge 20 marzo 1865 n. 2248 portante
l'introduzione della facoltà per i Comuni di dotarsi di un piano regolatore del
nucleo urbano , nella immediatamente successiva legge 25 giugno 1865 n. 2359
sulle espropriazioni per pubblica utilità, nel RDL 25 marzo 1935 n. 640
sull'obbligo di richiedere l'autorizzazione preventiva per l'edificazione
all'esterno dei centri abitati.
Forma più definita - e tutt'ora valida - è il corpo costituito dalla legge 17
agosto 1942 n. 1150, che non a caso chiamiamo Legge Urbanistica, che estese a
pianificazione tutto il territorio comunale da suddividersi in zone funzionali
differenti, in relazione alla destinazione d'uso, dalla legge 6 agosto 1967, n.
765, nota come Legge Ponte, cui va riconosciuto il pregio di aver introdotto
l'obbligo di prevedere standard minimi di servizi e misure di salvaguardia per
il territorio inedificato, dal DM n. 1444 del 1968, attuativo dell'articolo art.
17 della legge n. 765/1967, portante i tutt'ora vigenti in tema di standard
edilizi (volume, altezza e distanze) nonché di standard urbanistici (rapporti
tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi).
2.
Se il corpo della legislazione urbanistica può essere dunque
temporalmente circoscritto tra il 1942 e il 1968, la legislazione edilizia,
concettualmente posizionata in posizione subordinata, nasce più tardi ma poi
conosce una accelerazione che la prima non conosce, collocata tra il 1977 e
il 2001, ossia tra la legge 28 gennaio 1977, n. 10, e il Testo Unico
dell'Edilizia del 2001 (se pure entrato in vigore nel 2003).
Tra la legge del 1977 e il TUEd, stanno la legge 5 agosto 1978 n. 457 che
fornì un quadro organico dei poteri delegati alle Regioni per la
programmazione edilizia nonché la definizione delle tipologie degli
interventi edilizi, il d.l. 23 gennaio 1982, n. 9, che introdusse il
silenzio assenso, la legge 28 febbraio 1985, n. 47, che disciplinò
organicamente i poteri comunali di vigilanza sull'edificazione in uno con la
regolamentazione degli abusi realizzati fino al 1° ottobre 1983, la legge
finanziaria 23 dicembre 1996, n. 662, che eliminò il regime autorizzatorio a
favore della denuncia di inizio attività.
Si giunge così al riordino operato dal DPR 6 giugno 2001, n. 380, Testo
Unico dell'Edilizia, senza dimenticare le plurime modifiche apportate
all'articolo 19 della legge 241 del 1990, culminate nell'introduzione nel
2011 della Segnalazione Certificata di Inizio Attività, oggi estesa anche
all'edilizia.
3.
In mezzo ai due periodi indicati - ossia tra il 1968 e il 1977 - si
posiziona il DPR 15 gennaio 1972, n. 8, operante il trasferimento alle
Regioni delle funzioni amministrative in materia urbanistica, il cui portato
parallelo è la riforma del Titolo V della Costituzione, attuata attraverso
la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che pone la materia del
governo del territorio tra quelle concorrenti, riservando allo Stato la
determinazione dei principi fondamentali.
Quasi trent'anni separano le due normative, ma - come vedremo - la scelta (o
la non scelta) dello Stato di far precedere il Testo Unico dell'Edilizia al
mai emanato Testo Unico dell'Urbanistica, non è stata priva di conseguenze a
livello di macrolegislazione.
La più evidente conseguenza di questa (non) scelta la possiamo toccare con
mano: la Regione Lombardia, che non perde occasione per cercare spazi
legislativi a diretto contatto, se non in sovrapposizione, con quelli di
competenza statale, ha emanato la propria legislazione urbanistica a
distanza di soli quattro anni dalla modifica dell'articolo 117 della
Costituzione, occupando così quegli spazi che la mancata emanazione del
Testo Unico dell'Urbanistica ha lasciato liberi. La risposta
dell'ordinamento è stata duplice. In un primo momento le blande
contestazioni del Governo alla legge 12 si sono risolte in rilievi di
costituzionalità di poco conto, in parte risolti con la sentenza n. 129 del
2006 della Corte Costituzionale. In un secondo momento, la reazione è stata
affidata alla funzione giurisdizionale dello Stato, la quale di fronte alla
pervicacia del legislatore lombardo si è vista costretta a ribadire che, in
assenza di nuove regole, sono e rimangono valide le regole contenute nella
legge urbanistica, nel Dm 1444 e nel DPR 380.
4
Questa la ricostruzione del sistema attuale.
In quest'ottica quale ruolo gioco la rigenerazione urbana e quale ruolo
giocano gli strumenti urbanistici che utilizza? Per rispondere alla domanda
dobbiamo ovviamente partire da una definizione condivisa di rigenerazione
urbana, che non vedo pacifica nella letteratura sull'argomento e che quindi
ho cercato di ricostruire.
Una prima definizione potrebbe essere quella di rigenerazione come
"gestione dei processi di trasformazione del costruito".
Questa definizione dà per scontato ciò che scontato non è, ossia che la rigenerazione si fondi sulla dicotomia buono=ricostruzione, cattivo=nuova costruzione. Non entro nel merito della polemica sul consumo di suolo, che credo debba essere collocata in forme più corrette di esercizio delle scelte di fondo da parte dei cittadini, e suggerisco invece di integrare la definizione utilizzata con questa:
"rigenerazione come gestione dei processi di trasformazione del costruito verso forme compatibili con il tessuto edilizio e sociale cui appartengono".
Anche questa definizione non è però soddisfacente, perché -
pur avendo il pregio dell'elemento umano - è ancora troppo ancorata al
processo e non a ciò che provoca il processo.
Nemmeno è soddisfacente, a mio avviso, la definizione utilizzata dalla
regione Puglia nella legge regionale 29 luglio 2008, n. 21, secondo cui:
"La Regione Puglia con la presente legge promuove la rigenerazione di parti di città e sistemi urbani in coerenza con strategie comunali e intercomunali finalizzate al miglioramento delle condizioni urbanistiche, abitative, socio-economiche, ambientali e culturali degli insediamenti umani e mediante strumenti di intervento elaborati con il coinvolgimento degli abitanti e di soggetti pubblici e privati interessati"
Al di là della cifra retorica utilizzata sta di fatto che il
coinvolgimento degli abitanti nei processi di trasformazione è un elemento
del processo, non la sua finalità.
E nemmeno ogni intervento che apporta un miglioramento nell’ambiente urbano
dal punto di vista sociale, ambientale, fisico può essere definito, di per
sé stesso, rigenerazione urbana, come hanno sostenuto, ad esempio Rogers,
Evans e Shaw. Sarebbe interessante continuare a discutere su questo aspetto
ma non ne abbiamo il tempo. Propongo allora di integrare - non di sostituire
- le definizioni ricordate con quella di Roelof Verhage,
docente presso l'Università di Lione, secondo cui
“Our definition of urban renewal revolves around two aspects. First, the public sector intervenes purposefully to renew the (physical/social/economic) fabric of selected urban areas. Second, this renewal does not take place spontaneously, i.e. market forces are not sufficient to trigger and ensure adaptation or transformation.” (Verhage, 2005).
Che è quello che è stato un sociologo, Martinotti, a ricordarci: ossia che le trasformazioni degli anni '80 di pezzi di città - lasciate al mercato e indifferenti al contesto - che si autodefinivano concretissime (la cultura del fare), si sono dimostrate inattuabili, mentre sono stati i progetti apparentemente astratti di equilibrio del territorio, di rispetto ambientale, di valorizzazione dei centri minori degli anni ’60, a rivelarsi concreti per gli anni ’80 e successivi. In altre parole: una buona dose di idealità è l’antidoto ad un approccio progettuale apparentemente ‘concreto’ ma in realtà poco rispettoso della complessità del reale. Credo sia importante riflettere sul fatto che questo principio debba governare qualsiasi processo di trasformazione su scala medio-grande, rigenerazione compresa.
5.
Detto questo, veniamo al punto delle forme giuridiche che sovrintendono i
processi di trasformazione. Credo possiamo saltare a piè pari la
ricostruzione degli istituti, limitandoci a sottolineare come la
pianificazione urbanistica comunale si è sempre caratterizzata per una
concezione gerarchica. Al vertice stava il piano regolatore, originariamente
approvato con legge, e da questo discendevano, in perfetto allineamento, i
piani che ne davano attuazione, per questo chiamati, non a caso, attuativi.
Questo sistema verticale genera due conseguenze.
In primo luogo, la strumentazione urbanistica generale non contempla, o
contempla a fatica, la possibilità che quella di dettaglio (piani
particolareggiati, piani di lottizzazione, piani di recupero, piani di zona)
possano essere disallineati rispetto al dato generale. Tanto che le stesse
varianti al PRUG sono un istituto giurisprudenziale, nato dalla posizione
presa dal Consiglio di Stato. La prima conseguenza è quindi la conformità
come dato di sistema.
In secondo luogo, ulteriore conseguenza è che se gli strumenti urbanistici
sono retti dai principi di nominatività e tipicità, gli unici sistemi
legittimamente applicabili sono solo quelli previsti dalla legge e le
amministrazioni locali non possono introdurne di diversi. Elemento
subordinato e conseguente a quanto detto è che se la fonte della
promanazione è la legislazione, un tempo solo statale e oggi concorrente,
allora vi sarebbe un predominio necessario, sul Comune, degli enti locali
aventi territori più ampi o attribuzioni legislative. Come, ad esempio,
Regioni o Province, nei cui confronti il Comune avrebbe il compito di
attuare scelte di dettaglio attuative di strategie e disegni di livello, per
l'appunto, più alto.
6.
Non sarò certo io a tessere le lodi dell'esercizio delle forme di
pianificazione da parte delle amministrazioni locali, che anzi sono convinto
abbiano fatto molti più danni di quanti ne abbia fatti il potere centrale.
Vorrei però sviluppare la tesi accennata all'inizio di questo intervento.
Alla legge 12 della Lombardia va riconosciuto il merito di aver messo ordine
in un sistema assolutamente ipocrita che per un decennio ha instancabilmente
emanato leggi così espressamente derogatorie al sistema da costituire esse
stesse sistema di regole, così che fino al 2005 si poteva affermare,
parafrasando Alan Watts, che “l’urbanistica è un gioco la cui prima
regola è: non ci sono regole”. L'introduzione di invarianti
metodologiche, piuttosto che di contenuto, prima tra tutte la Valutazione
Ambientale Strategica, ha permesso di istituzionalizzare la possibilità
delle varianti alle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali,
introducibili con il ricorso ai piani di dettaglio e procedure semplificate
perché il principio gerarchico - sottolineava Stella Richter - non va
confuso con il principio della progressiva specificazione di contenuti. Come
d'altro canto avveniva con i piani particolareggiati, abbandonati nella
pratica a favore dei piani di lottizzazione perché imponevano uno sforzo
concettuale e di programmazione ben più ampio rispetto ai secondi. Salvo poi
variare i secondi e quindi il piano stesso. Insomma, vi è un ritorno
all'antico, allo spirito della legge del 1942 che affidava ai piani
particolareggiati, e non ai piani attuativi, il compito di attuare
attraverso scelte discrezionali le linee di massima e di indirizzo contenute
nel piano urbanistico. Il nuovo corso della pianificazione urbanistica pone
quindi come assodato l'assunto del superamento delle criticità poste dalla
legislazione eccezionale, attraverso la definitiva messa a regime
dell'istituto delle "varianti" all'interno del sistema di pianificazione
ordinaria, fermo restando che di varianti, per le ragioni dette, non si
dovrebbe più parlare.
Il secondo punto - che, come dicevo, è l'elemento più futuribile - ipotizza
un percorso di affrancamento delle forme di pianificazione comunale da
quelle regionali.
Abbiamo detto che se gli strumenti urbanistici sono retti dai principi di
nominatività e tipicità, gli uniche forme di pianificazione sono quelle
previste dalla legge. Il che vuol dire, in parole povere, che le
amministrazioni locali non possono introdurne di diverse. Il Comune di Como,
ad esempio, contempla nel suo PGT i comparti urbani di trasformazione, dove
chiede di contestualizzare gli interventi di pianificazione attuativa,
ampliando correttamente la scala della valutazione d'impatto al di là di
quella comunque sottoposta a Valutazione ambientale Strategica. Reggerà
questa scelta il vaglio degli eventuali ricorsi al TAR, così come non no lo
hanno retto le ZTU? Non lo so. Quello che posso dire è che la scelta del
legislatore lombardo è dissonante rispetto al progetto di
legge urbanistica nazionale ancora in attesa di calendarizzazione il quale, nell'affidare
alla Regione il compito di individuare i contenuti della pianificazione
territoriale e al Comune quello di redigere - analogamente al vecchio Piano
regolatore - il Piano urbanistico, distingue all'interno di quest’ultimo tra
un piano strutturale e un piano operativo.
Tutto ciò appare lontano nella legislazione lombarda: la legge 12/05
sancisce infatti il debutto nel panorama nazionale del controverso modello
del piano ^direttore^, fatto solo di indici e funzioni per le aree di
trasformazione ed attuato con elevata libertà dai piani attuativi, valutati
caso per caso dalla Giunta senza passare per il voto del Consiglio comunale
- dove al di sotto del Documento di piano non c’è altro, nel senso che le
previsioni urbanistiche "strutturali" descritte nel Piano del Governo del
Territorio non sono seguite da un "piano operativo", come previsto in quasi
tutte le altre leggi regionali di riforma degli ultimi dieci anni, ma
direttamente da piani attuativi. Qual'è la conseguenza? Che nello
spirito della legge 12 il luogo delle invarianti non è più il documento
strutturale (Piano delle Regole o Documento di Piano), ma
concretamente progettuale in termini di sostenibilità delle scelte
(il Piano dei Servizi), e che le invarianti a livello progettuale non sono
più gli standard edilizi (altezze, distanze, volumetrie, funzioni) ma i processi
di valutazione. Ci spostiamo dai contenuti ai processi. Da ciò che accade al
mistero del come accade, con ovvio stravolgimento dell'approccio culturale
legato alla rigida struttura del PRG.
Se quello che abbiamo detto è corretto, come potranno Stato e Regioni
contestare ai Comuni di aver declinato i poteri loro attribuiti in processi
non contemplati dalla legislazione vigente, quando l'articolo 13 del TUEL
afferma che "Spettano al comune tutte le funzioni amministrative [...]
dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico,
salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze"?
Se sui processi, e non sui contenuti, avverrà il confronto, come negare alle
amministrazioni locali di gestire, ad esempio, l'atterraggio delle
volumetrie previste dal PGT attraverso bandi di assegnazione, che - senza
negare ad alcuno la possibilità di intervenire sui propri fondi - premino
alcuni piuttosto che altri in modo da collocare temporalmente alcuni
interventi rispetto ad altri in modo da favorire l'allineamento al programma
triennale delle opere pubbliche?
E come impedire ai Comuni di richiedere, come nel caso del Comune di Como,
di subordinare interventi di scala urbana alla verifica della corretta
collocazione sul più vasto tessuto cui appartengono?
E come, ancora, non immaginare di abbandonare definitivamente quel che resta
dell'architettura dei programmi di riqualificazione urbana dell'art. 16 L.
179/1992 per Programmi Integrati di Intervento che, diversamente dalla
maggioranza di quelli attuati, recuperino lo spirito del disatteso primo
comma dell'art. 90 LR 12, secondo cui
"1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle attrezzature esistenti nel territorio comunale [...]".
E come non immaginare forme di premialità perequativa per comparti
extracomunali, legate al contenimento del consumo del suolo, introducendo
forme di compensazione per i comuni virtuosi da parte di quelli meno
virtuosi, gestibili attraverso livelli provinciali cui andrebbero attribuite
parte dei benefici economici delle trasformazioni del territorio non
urbanizzato?
Si tratta di scelte di processo, non di contenuto che - se correttamente
inquadrate - non abbisognano di ^copertura^ legislativa, trattandosi
dell'esercizio sì di poteri regolamentari ma fortemente legati al nuovo
principio per cui è l'ente locale (e non quello regionale, che nella legge
12 ha definitivamente abdicato al proprio ruolo di pianificatore locale) a
determinare non solo il come ma anche il dove e il quando costruire.
8.
Per concludere.
L'elencazione degli strumenti oggi a disposizione degli operatori per
rigenerare l'esistente mi sembrava un esercizio poco interessante. Molto più
interessante mi sembrava cercare di individuare, attraverso l'analisi
dell'evoluzione delle forme, i possibili scenari futuri.
Mi sembra possiamo dire di aver individuato una possibile linea evolutiva
che, lontano dagli eccessi degli anni '80, punti a far evolvere gli
idealismi degli anni '60, dove sostenibilità, equilibrio del territorio,
rispetto ambientale, valorizzazione dei centri storici erano le parole
d'ordine. Senza scadere nel mito della bontà delle decisioni assunte in modo
collettivo, ma senza ignorare i processi partecipativi e riconoscendo il
peso della parte pubblica nella gestione delle trasformazioni urbane.
Non nascondo la possibilità che la presa di coscienza da parte delle
amministrazioni locali del fatto che solo un ruolo attivo nei processi di
trasformazione può consentire loro di attirare risorse preziose in momenti
di scarsità delle stesse, possa generare conflitti tra enti locali e enti
sovraordinati. Confido però in una positiva evoluzione dei rapporti tra enti
alla luce del principio di leale collaborazione tra enti e di autonomia
degli enti locali. Perché diversamente assisteremmo soltanto ad una nuova
centralità regionale, in sostituzione di quella statale, ignorando e
ritardando una evoluzione del diritto urbanistico assolutamente ineludibile.
Il che rappresenterebbe l'evidente esito di un processo di degenerazione
invece che di rigenerazione.